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IL SETTECENTO E I "CENTRI STORICI"
Comunque, tornando ai primi del secolo XVIII, c'è da dire che i criteri secondo i quali de Brosses giudica piazza San Pietro, sono quelli ch'egli applica a proposito di tutta una serie di città dotate di un "centro storico". Così, la "città vecchia" di Marsiglia, per esempio gli appare semplicemente "ricca, puzzolente e senza bellezze" (194); i "quartieri bassi" di Mantova (cioè, "quasi tutta la città", come specifica lui stesso), li trova "sporchi e fetidi" (195). Quanto a Roma, de Brosses, dopo aver speso una pagina intera su Piazza del Popolo, che giudica una degli ingressi in città più spettacolari del mondo, non può tuttavia non aggiungere un raccomandazione ai lettori: «Non vi venga in mente, però, di gettare lo sguardo sui lati del triangolo (costituito, allora, da Piazza del Popolo); non vedreste a destra che alcuni grandi e brutti magazzini di fieno, a sinistra che la chiesa di Santa Maria, mediocrissima costruzione (...) Un simile contrasto è difetto piuttosto generale qui; non vi sono che palazzi o tuguri; un edificio superbo è circondato da cento brutte casette; alcune grandi vie di una lunghezza senza fine, diritte a meraviglia, quasi sempre terminanti in belle prospettive, servono soltanto a ritrovarsi in mezzo a una serie di androni, di viuzze tortuose, o di brutti piccoli crocicchi». (196). La sistemazione della Piazza, quale vediamo attualmente, nasce dunque molto prima dell'epoca napoleonica cui risale; e sarà proprio, del resto, un certo tipo di "difettosità" romana, non limitata a Piazza del Popolo ma estesa a tutta la città preunitaria, che de Brosses ricorderà nella invece tutta nuova Torino, facendogli apprezzare questa città come la più bella d'Italia. E' un'ideologia che de Brosses applica anche all'elemento-Tevere, dentro il tessuto urbano di Roma: «Il Tevere non ha lungofiume; pensate quale enorme difetto sia questo in una città tanto ricca di ornamenti. Ne viene che i quartieri vicini al fiume, i quali dovrebbero essere i più aperti e i meglio arieggiati, sono invece i più brutti; quello degli ebrei soprattutto è arcipuzzolente. Il lungofiume sarebbe il più necessario e bell'ornamento da dare a questa città. Mi hanno detto che non sarebbe costato di più costruirne uno dall'ingresso della città fino al ponte Sant'Angelo, che decorare, così come hanno fatto da poco, la chiesa di San Giovanni in Laterano; che si era discusso per quale di queste due opere spendere la somma, e l'ultima aveva avuto la precedenza. Molto ben pensata!» (197). Dove anche stavolta è facile individuare le premesse ideologiche, non solo di certe operazioni svenatrici specificamente fasciste, ma anche di realizzazioni anteriori, quali molte del periodo immediatamente "piemontese" di Roma. E più illuminista ancora è de Brosses quando lamenta che nella "meravigliosa" piazza Navona si tenga il mercato delle erbe (quantunque questo mercato non riesca, per la verità, a offuscare il grande spettacolo delle fontane) (198). Nè il furor geometrizzante di de Brosses investe solo casupole e tuguri del centro storico di Roma (medioevale e rinascimentale). Appartiene a de Brosses (che qui è più lontano che mai, poniamo, da un Piranesi, per il quale è degno di conservazione e di riproduzione anche solo un informe relitto antico, nemmeno ripulito delle sue edere e dei suoi capelveneri), anche un singolare progetto sul Colosseo: «Il mio progetto (sono fertile di progetti, io) sarebbe di ridurre il Colosseo a semianfiteatro, di abbattere il resto della cerchia dalla parte di monte Celio, di restaurare nella sua antica forma l'altra metà che si lascerebbe in piedi, e di fare dell'arena una bella piazza. Non è forse meglio avere mezzo Colosseo in buono stato, che averlo tutto intero a pezzi? E chi vi impedisce, signori romani, di collocare al centro di questa piazza una vasta fontana, o persino un laghetto, per dare l'impressione di un'antica naumachia?» (199). E del resto, in tutto questo de Brosses è anche coerentissimo con una "poetica" urbana che gli viene fatto di delineare con la massima chiarezza al cospetto di un altro punto romano particolarmente significativo, il crocicchio delle Quattro Fontane (oggi praticamente illegibile, in ragione del caotico traffico automobilistico, proprio nella sua ragione essenziale): «Nulla poteva esser meglio concepito di questo incrocio ad angolo retto di quattro vie diritte, che offrono da tutti i lati una prospettiva a perdita d'occhio, dalla Trinità dei Monti fino a Santa Maria Maggiore, e dalla Porta Pia a Monte Cavallo. Ecco una cosa che qui sanno fare meglio che a Parigi, dove non si bada abbastanza alla profondità delle prospettive e al loro inquadramento. Io vorrei che in qualunque città si intenda creare qualcosa di magnifico, tutti gli abbellimenti fossero concentranti in un solo quartiere, finchè questo non fosse ornato per intero, e solo dopo si passasse al quartiere vicino. Quando invece le belle opere sono disperse qua e là in una grande città, spesso esse si trovano affogate da un brutto insieme, e la città ne perde in bellezza» (200). E' dunque la solita poetica, in primo luogo, di isolamento delle "grandi opere" (antiche o moderne non conta) dalla brutture "plebee" che le soffocano, e in secondo luogo, di collegamento di queste "grandi opere" mediante una rete di prospettive stradali lunghe, larghe e diritte. La sparizione di interi quartieri di "casupole" o anche, perchè no?, di mezzo Colosseo se occorre, è qui espressamente teorizzata. E del resto, sono le medesime idee di Voltaire, il quale, fra il 1749 e il 1751, ha, per esempio, queste considerazioni a proposito del centro storico di Parigi:
«Si passa davanti al Louvre, e si geme nel vedere questa facciata, monumento alla grandezza di Luigi XIV, dello zelo di Colbert e del genio di Perrault, nascosta da costruzioni di goti e di vandali (...) (Questo) centro della città, oscuro, soffocato, uniforme, ritrae l'epoca della più vergognosa barbarie (...) Se ci fossero stati due o tre prevosti di mercanti simili al presidente Turgot non si rimproverebbe alla città di Parigi un palazzo comunale così mal costruito
e mal situato, in una piazza tanto piccola e irregolare, celebre solo per le forche e i piccoli falò, nè quelle strade strette nei quartieri più battuti, un resto di barbarie, insomma, in mezzo alla grandezza e nel centro di tutte le
arti (201)(...) Bisogna slargare le strade strette e malsane, portare alla luce i
monumenti che non si vedono, e innalzare altri che si possano vedere»
(202).
(194) CHARLES DE BROSSES, op. cit., p. 321. (195) Ibid. p. 322 (196) Ibid. p. 324. Anche al nostro MALASPINA (cfr. ALESSANDRO D'ANCONA, cit., p. 183) Roma da l'idea, nel 1786, di "un grande magazzino", ove sieno alla rinfusa mischiate le merci più rare colle mediocri, e con le affatto cattive". Bellissima, invero, l'entrata da Porta del Popolo, ma "niuna fabbrica decorosa nella piazza stessa". Ancora nel 1832 QUATREMERE DE QUINCY (op. cit. antologizzata in PAOLO SICA, cit., pp. 46-47) continua a ripetere che "in parecchie città d'Italia, a Roma stessa ed a Firenze, si ha spesso il dispiacere di non poter ammirare ad una conveniente distanza vari monumenti di ottima fattura". (197) CHARLES DE BROSSES, op. cit., p.325. (198) CHARLES DE BROSSES, op. cit., p. 327. (199) Ibid. p. 329. (200) CHARLES DE BROSSES, op. cit., p. 340. (201) VOLTAIRE
(202) VOLTAIRE, Il secolo di Luigi XIV
(I ed. 1751), trad. it. UMBERTO MORRA, Torino, Einaudi, 1951, p. 412. Vedi, del
resto, anche quanto dice in proposito MARC-ANTOINE LAUGIER, Essai sur l'architecture
(1753), antologizzato e in trad. it. in PAOLO SICA, op. cit., pp. 27-32, passim.
Scrive ANDRE' CHASTEL (Problemes d'urbanisme a Paris au XVIII siecle, in
AA.VV. Sensibilità e razionalità nel Settecento, cit., pp. 617-628) che
in realtà "le Paris de l'Ancien Regime (ou Paris prè-mapolèonien) est constituè
de multiples liaison obliques et nno de perspectives linèares. Les deux
cheminements paralleles au fleuve èvoluent en une ondulatione continue qui
multiplie les petits carrefours et refuse les vues lointaines. C'est ce qu'on
peut appeler, pour semplifier et pour bien dègager le caractèere, à mon avis,
capital, de la ville ancienne, l'urbanisme du labyrinthe". Un lavoro
fondamentale su questa "urbanistica labirintica" lo dobbiamo a MARIO PERNIOLA,
Appunti per una storia dell'urbanistica labirintica, in "Rivista di
Estetica", a . XIII, fasc. II, maggio-agosto 1968, pp. 233-251. |